Possente guerriero bedine proveniente dall'Anauroch.
Storia di Hazim
Il deserto dell’Anauroch è, di tutte le regioni di Faerun, forse la più instabile, sia a livello climatico che a livello demografico. In questa enorme distesa di sabbia, sopravvivono solo le forme di vita che sono veramente attaccate alla vita stessa, e, conseguentemente, ad ogni suo aspetto materiale. In una terra il cui clima può raggiungere di giorno anche i cinquanta gradi all’ombra e di notte sfiorare la stessa cifra sotto lo zero, è normale arrivare ad uccidere un essere vivente con la stessa indifferenza on cui si schiaccia un moscerino.
I figli degli uomini si uccidono a vicenda per i morbidi fianchi delle proprie spose; I predatori del deserto, i feroci asabi e i piccoli ma letali stingtail, compiono fra di loro duelli all’ultimo sangue per stabilire chi ha diritto ad ottenere la maggior parte di refurtiva; i maghi dell’enclave di Shade si tendono a vienda tranelli mortali per carpirsi importanti segreti sulla magia.
Tutto questo pensava Hazim el Kassem mentre, in una sala delle tante rovine che costellano l’immenso deserto dell’Anauroch, gli veniva fatto il dono tanto raro di non stare fronteggiando un’esemplare della sua stessa specie. Il guerriero del deserto si piegò sulle gambe, pronto a scattare. La sua corporatura, enorme per essere quella di un nomade, di un metro e novantasette di altezza per quasi cento chili di peso, si irrigidì quando dal portale magico presente nella stanza si affacciò il volto inebetito di un dretch. Hazim avvicinò ancora di più lo scudo rotondo che portava imbracciato al braccio sinistro e si mise in guardia, portando la lama della sua scimitarra dietro la gamba sinistra, a formare un angolo acuto con il terreno. Sulle prime il Dretch non lo notò neppure. Mosse pochi passi incerti all’interno della stanza, e, dopo essersi guardato intorno per un tempo che pareva infinito, notò il nomade vestito di blu che gli stava davanti. In modo sgraziato ma sorprendentemente veloce, il Dretch si lanciò all’attacco, con le grosse mani protese in avanti. Era quello che Hazim aspettava. Spostandosi lateralmente, evitò la carica del demone: poi, con un rapido movimento della lama dal basso verso l’alto, gli arti superiori della creatura caddero a terra con un tonfo sordo, che riecheggiò per le stanze vuote dell’edificio. Ma Hazim sapeva che il suo attacco non sarebbe stato sufficiente a stroncare la furia omicida del demone. Con un salto, il nomade fu addosso all’essere demoniaco, che, in preda allo sconforto, si era buttato a terra e si stava rotolando nel suo stesso sangue, lanciando strida altissime. Due veloci colpi della spada di El Kassem, e le urla cessarono.
Molti secoli or sono, i fondatori della tribù di Hazim trovarono, durante una delle loro innumerevoli peregrinazioni nel deserto, una misteriosa rovina con un portale ancora attivo nel quale non si poteva entrare ma dal quale continuavano ad uscire, a intervalli irregolari, gruppi di demoni che seminarono il terrore fra i nomadi. Inizialmente colti alla sprovvista. gli uomini del deserto subirono gravi perdite fino a che la loro tempra non ebbe la meglio sulla paura, e, riorganizzatisi, riuscirono a eliminare l’orda di demoni pagando però un caro prezzo in termini di vite umane. Una spedizione armata all’interno del luogo, accompagnata dai saggi della tribù, rivelò che uno dei manoscritti in possesso della tribù di Hazim, scritto per metà in comune e per metà in una lingua sonosciuta, presentava gli stessi caratteri in rilievo sul portale, e che, con l’ausilio del libro, vennero decifrati. Le iscrizioni narravano la storia di un antico impero esistito millenni or sono, i cui abitanti vivevano in immense città sospese fra la terra ed il cielo, ma non diceva nulla sulla possibile funzione originaria del portale. Vista la struttura delle rovine, si poteva ipotizzare che originariamente facesse parte di un tempio, ma a questo neanche i saggi, che nella loro vita avevano visto molti popoli e città con i quali la loro tribù commerciava saltuariamente, sapevano dare una risposta certa. Da quel giorno, la tribù di Hazim si elesse a guardiani del luogo, usando le proprie esperienze di uomini temprati dal territorio inospitale del deserto per sopraffare i demoni di modo da garantire un passaggio sicuro verso le vicine oasi, che offrivano inoltre una solida base per la loro economia fondamentalmente basata sull’allevamento. Il fatto di combattere tanto assiduamente una crociata all’apparenza senza fine era alimentata dalla credenza religiosa del popolo di Hazim che narrava di una tribù di eletti che superando enormi difficoltà, sarebbe giunta alla perfezione fisica e spirituale, e che sarebbe giunta a camminare per i cieli riportando la pace in terra agli uomini. E, finalmente, dopo tre giorni di guardia assidua e solitaria davanti a quel portale che aveva reclamato tante vite di uomini, donne, e bambini, Hazim ce l’aveva fatta. Aveva superato la prova di iniziazione per entrare a essere il comandante del corpo d’èlite dei soldati della sua gente, un corpo formato da uomini che contavano unicamente sulle proprie forze per sopravvivere, avendo in assoluto disdegno tutto ciò che proveniva dalla Magia. Hazim sapeva, in cuor suo, che non tutta la magia era cattiva, e che forse un giorno avrebbe trovato chi praticava magia con un cuore nobile; ma fino a quel momento, preferiva affidarsi uniamente alla sua esperienza di nomade per sopravvivere nel clima inospitale del deserto. Sapeva curare se stesso e i suoi compagni, e, finchè avesse avuto aria nei polmoni e un corpo sano su cui fare affidamento, nessuno lo avrebbe convinto a fare affidamento sulle arti magiche. Nessuno. Tranne, forse, una catastrofe naturale. Come quella che colpì il suo popolo poco prima dell’inizio della sua mirabolante avventura. E che ebbe per oggetto quelle oasi la cui accessibilità avevano strenuamente difeso per tanti anni, e che avevano sempre costituito un punto essenziale della sopravvivenza del deserto, offrendo non soltanto acqua e refrigerio al viandante assetato, ma anche pascoli per il bestiame della cui vendita quella gente viveva; quelle stesse oasi sulle cui acque un giorno il sole smise di riflettersi. Poiché non c’era più acqua. Le oasi si erano inspiegabilmente prosciugate. Il clima dentro la tenda dello Sheikh, preparata per ospitare il consiglio della tribù ivi riunito, era denso di tensione. Nonostante la stagione delle piogge sia vicina, la sua tribù si trovava davanti al dilemma di abbandonare la propria missione oppure continuare e perire nell’impresa. A quel consiglio parteciparono tutti i membri di spicco della comunità beduina: c’era lo Sheik, che troneggiava su tutti sul suo seggio fatto di morbidi cuscini, sua moglie, seduta poco più in basso, avviluppata in un elaborato vestito di sete multicolori che lasciava spazio libero solo per gli ochi neri e penetranti; c’era Salef, il consigliere personale dello Sheikh, con il cranio rasato, le mani ingioiellate e i tatuaggi votivi tipici della casta degli enunchi che gli coprivano tutto il corpo; c’erano gli anziani del villaggio, testi sacri alla mano, e tutti i guerrieri più forti, compreso Hazim. Non fu facile trovare un accordo, ma alla fine venne deciso di istituire una carovana con il duplice scopo di vendere quanto più bestiame possibile in cambio di acqua e erbe mediche, delle quali la tribù aveva un gran bisogno dopo un’ondata di demoni particolarmente feroci, che ha mietuto le anime di molti guerrieri valorosi e reclamato ancora più feriti. La spedizione riuscì, ma, mentre stava tornando a casa con il prezioso carico, si profilò all’orizzonte lo stendardo nero dei predoni del deserto. Seppur stremati dal viaggio e dalla fatica, gli uomini di Hazim decisero di separarsi; una parte guidò la carovana al villaggio, un’altra rimase indietro per cercare di bloccare gli assalitori. La battaglia fu cruenta, ma alla fine i ben addestrati nomadi guidati da Hazim riuscirono ad avere la meglio sui predoni, che, pur essendo in numero decisamente maggiore, non potettero nulla contro dei guerrieri addestrati a combattere dei demoni. Nessuno dei predoni sopravvisse per raggiungere la carovana, ma Hazim e i suoi dovettero rassegnarsi ad una lunga marcia nel deserto seguendo le tracce della carovana. Ma all’improvviso, a complicare le cose giunse una repentina tempesta di sabbia, che cancellò ogni punto di riferimento. Camminando solo di notte e orientandosi con le stelle, i guerrieri nomadi si imbatterono, sulla strada di casa, in una rovina scoperta dalla tempesta e mai notata prima, di fattura apparentemente simile alle rovine del loro villaggio, con un’unica eccezione… è fatta interamente d’oro. Con circospezione, i nomadi si avvicinarono alla struttura per ispezionarla, trovando sull’architrave d’ingresso un’iscrizione, nello stesso linguaggio delle rovine del portale, che spiegò che si trovavano al cospetto della tomba di un nobile dell’antica stirpe degli “uomini del cielo”. In modo molto sibillino, l’iscrizione lascia anche intendere che chiunque si azzardi a profanare tale luogo, soffrirà la peggiore delle morti. Hazim e i suoi si resero conto di trovarsi davanti l’unica possibile salvezza per il loro popolo, e fanno ritorno al villaggio portando la notizia della scoperta. Viene organizzata un’altra spedizione alla quale partecipano Hazim, lo Sheikh e i saggi della tribù, che, una volta letta l’iscrizione, ovviamente, sconsigliarono caldamente di entrare nella tomba. Ma l’occasione è troppo ghiotta, e, alla fine, la necessità ebbe la meglio sulla ragione. La volontà dello Sheikh è legge, e Lo Sheikh decise di entrare, accompagnato dai saggi, mentre Hazim resta di fuori a montare la guardia. La quantità di ori e manufatti preziosi trovati nella tomba era tale che il ricavato della loro vendita al mercato avrebbe consentito di vivere negli agi per anni a tutta la tribù. Tuttavia, lo Sheikh decise di prenderne solo la quantità necessaria per acquistare le risorse sufficienti a sopravvivere fino alla stagione delle piogge. Il gruppo ritornò al villaggio con la preda, ma nessun membro della piccola compagnia fa festa. Le parole della misteriosa maledizione risuonano ancora nelle orecchie di tutti. Gli abitanti del villaggio, invece, furono assolutamente sollevati nel vedere il tesoro portato dal gruppo, e, quella sera, una festa viene indetta in onore dello Sheikh.
L’atmosfera è rilassata, tutti devono, mangiano e fanno festa. Solo Hazim, in disparte, fuma pensoso la sua pipa mentre guarda sua moglie Myrna El Alarwi, suo figlio Walid El Kassem e i suoi compagni d’arme bere, mangiare e danzare fino allo sfinimento, apparentemente dimentichi della loro missione. Quella sera, a Hazim furono concesse due ore in più di riposo perché era stato uno degli scopritori della tomba, ma non riuscì a rilassarsi. Oltre alla naturale apprensione per l’apparentemente fortunata scoperta, Hazim era preoccupato dal comportamento del consigliere personale dello Sheikh, l’enunco Salef. Hazim aveva notato che alla vista dei tesori i suoi occhi si erano illuminati di una luce oscura, e che i suoi occhi si erano posati su un particolare manufatto, una scatola chiusa in oro massiccio finemente cesellata. Adesso Salef era lì, a versare una coppa di vino dietro l’altra allo Sheikh, e non finiva mai di adulare il suo signore. A hazim venne in mente un detto che suo padre amava ripetere: “coloro che parlano con la lingua coperta dal dolce miele delle api colpiscono alle spalle con il velenoso pungolo dello scorpione”. Poiché non riusciva a rilassarsi, Hazim, augurata la buonanotte a sua moglie e suo figlio, pensò di andare a scambiare due parole con i suoi compagni di guardia all’entrata. Si infilò l’armatura di cuoio borchiato ed imbottito regalatagli dal padre, si cinse la scimitarra al fianco ed imbracciò il suo grande scudo rotondo su cui sua moglie Myrna aveva dipinto con cura una luna crescente ed una stella il giorno stesso della loro unione in matrimonio. La luna rappresentava lei, mentre la stella rappresentava il piccolo Walid. Myrna gli aveva decorato lo scudo in quel modo poiché potesse sempre combattere protetto dalla sua famiglia. Il guerriero del deserto si fermò a contemplare lo scudo rotondo e luminoso con una minacciosa borchia appuntita al centro; poi, in silenzio, si diresse verso l’entrata del villaggio. Era una notte così limpida che le stelle illuminavano a giorno tutta la vallata. Hazim raggiunse il cerchio esterno di tende da nomadi del suo accampamento. L’atmosfera era stranamente silenziosa, quasi irreale. Il campanello d’allarme di Hazim iniziò a suonare, e si avvicinò silenziosamente al cancello della staccionata esteriore. Il silenzio poteva essere causato dal fatto che tutti erano alla festa, ma c’era qualcosa che mancava. Qualcosa che non era al suo posto. Qualcosa che avrebbe dovuto esserci, ed invece non c’era. Poi Hazim capì. Il fuoco. Il fuoco sacro sui pali dell’entrata del villaggio, che serviva da faro nella notte per i viandanti del deserto, che serviva per condurre gli eventuali viandanti sperduti nell’immensità del deserto. Come mai era spento? Fu quello a salvare la vita ad Hazim. Sentì un fruscio ovattato alle sue spalle, e istintivamente si girò con lo scudo levato verso l’alto. Il colpo che arrivò fu sufficiente a togliergli il respiro e a spingerlo indietro di due metri. Con la vista ancora annebbiata, Hazim vide un essere molto simile ad una lucertola eretta sulle zampe posteriori brandire un’ascia e torreggiargli davanti, gli occhi rossi scintillare nel buio, la lunga lingua biforcuta fuori dalla grossa bocca coperta di scaglie ocra, e fece l’unica cosa che poteva fare. Chiamò a se tutte le sue forze, si slanciò in avanti urlando “PERICOLO! GLI ASABI CI ATTACANO!” nella speranza che la sua voce potesse raggiungere i suoi compagni nell’accampamento, e si peparò all’impatto con la gigantesca creatura del deserto. Come al rallentatore, vide il grosso carapace della creatura avvicinarsi sempre più. Poi, inarcò la schiena, protese lo scudo in avanti e vi si appoggiò con la spalla, la testa e la mano, cercando di sfruttare il suo peso per colpire l’essere allo stomaco. Fu come aver colpito un sasso. Il lucertolone incassò il colpo, si girò e sferrò un potente colpo di coda che mandò Hazim a sbattere contro il muro di cinta. Poi, si chinò sul guerriero stordito, serrò le sue zampe intorno al suo collo e lo sollevò da terra, cercando di strangolarlo. Hazim si sentì perduto. Le zampe dell’animale erano come una morsa inarrestabile. Cercò di prendergli un dito per spezzarlo, ma fu inutile. Ormai era sicuro di stare scivolando in un abisso senza fine, nel quale non avrebbe mai più rivisto il sole del deserto tramontare sulle dune, il corpo di sua moglie nella luce del focolare della tenda, suo figlio Walid che diventava grande… Walid. Il pensiero che quegli esseri immondi avrebbero riservato al suo povero, piccolo figlio un trattamento ancora peggiore di quello che stava subendo, il pensiero che avrebbero banchettato sulla sua carne indifesa o che peggio ancora l’avrebbero messo in ceppi, per farlo schiavo, bastò a ridargli coraggio. Con le ultime forze cercò il pugnale che portava sempre nello stivale destro. Le sue dita cercarono freneticamente l’impugnatura d’avorio lavorato di cui era stato tanto fiero quando suo padre glielo regalò il giorno che Hazim diventò un uomo, ma era come cercare in un abisso di olio nero. Le forze lo stavano definitivamente abbandonando. Poi, dall’abisso nero della morte, la sua mano afferrò qualcosa, si slanciò in un arco è affondò in una pozza di melma viscida e calda. Prima che la morte per asfissia lo sopraffacesse, Hazim aveva trovato il coraggio di piantare il coltello in gola all’asabi, con una violenza tale che la lama aveva sfondato le due scaglie in corrispondenza sul dorso. Il bestione lasciò la presa, emise un gorgoglio sinistro e crollò al suolo. Esausto, anche il nomade si lascio cadere a terra e, ansimando, lasciò che l’aria fresca della sera gli invadesse i polmoni. Rimase a terra per un periodo di tempo che a lui parve un’eternità, quando finalmente ritrovò la sensibilità degli arti e recuperò la vista. Quello che si profilava davanti ai suoi occhi era uno spettacolo a dir poco orribile. Gli Asabi avevano già fatto breccia nella palizzata ed avevano già cominciato a mietere vittime. Per primi caddero coloro che avevano ecceduto nei festeggiamenti e nel vino. Troppo deboli per tentare una difesa, rimasero inerti mentre l’acciaio degli Asabi e le frecce dei piccoli stingtails penetravano nelle loro carni. Poi venne la volta di donne, vecchi e bambini. Nessuno fu risparmiato, e caddero tutti vicino al fuoco, in una scomposta danza. Tutt’intorno era il delirio. Chi usciva dalla tenda coperto solo dello scudo e della spada, pronto a fronteggiare i nemici, per essere poi abbattuto senza pietà; chi gridava ordini concitati, chi, ferito, lanciava urla agonizzanti… Hazim correva verso il fuoco e intanto cercava con lo sguardo Myrna e Walid, che non sembravano essere da nessuna parte. Vide, invece, un’altra cosa: l’enunco Salef che discuteva animatamente con le guardie del corpo dello Sheikh, che giaceva nella sua tenda immerso nel lago del suo stesso sangue, che cercavano di strappargli di mano la scatola d’oro sulla quale l’aveva visto posare uno strano sguardo solo poche ore prima… Vide la scatoletta oggetto di una contesa fra le guardie e Salef, che opponeva una discreta resistenza fisica, così innaturale nel corpo di un uomo apparentemente insignificante come lui… Vide la scatoletta essere strappata dalle mani di Salef, e un ruggito di rabbia emerse dalla gola dell’enunco, che mise le mani a coppa pronunciando parole in una lingua dimenticata da secoli… Hazim non ebbe neppure il tempo di gridare. Vide un getto di fuoco sprigionarsi dalle sottili mani ricoperte di anelli dell’enunco, e poco dopo le guardie dello Sheikh si stavano rotolando a terra cercando di spengere le fiamme, e Salef aveva già preso la scatoletta e cercava di dileguarsi, non visto, verso il portale, e fu allora che Hazim si riscosse… “SALEF! SALEF! Torna indietro!” Sentendosi scoperto, l’enunco si girò verso Hazim, e la sua impressione imperturbabile si trasformò in una smorfia di scherno. Alzò la mano in segno di un derisorio saluto, poi prese a correre velocemente verso le rovine, verso il portale… Hazim provò a raggiungerlo, ma invano. Davanti all’entrata delle rovine si era assiepata una folla di superstiti, che cercavano di mettersi in salvo dietro il muro di lance che i soldati superstiti avevano eretto. Salef, invece, sembrò passare fra di loro come se fosse fatto d’aria. Hazim ebbe il tempo di vederlo fermarsi davanti al portale, trafficare un attimo con il manufatto d’oro e poi scomparire in quello stesso portale dove a memoria d’uomo nessuno era mai riuscito ad entrare. Maledicendo la sorte, Hazim si diede a dirigere la difesa della sua gente, combattendo in prima fila, dirigendo le cariche contro il sempre crescente numero di Asabi ed esortando i suoi compagni a non cedere neppure di un passo. Ma alla fine capì che quele bestie malefiche avrebbero avuto la meglio sulla sua gente, e decise di tentare l’impossibile. Diede l’ordine di entrare nel portale e mettersi in salvo. Era l’unica possibilità che avevano, di fronte a quel mare di scaglie color oro che sembrava non dover aver mai fine. Ovviamente, non fu affatto un impresa facile convincere i beduini, che anziché usare un artefatto magico avrebbero preferito morire con la spada in pugno. Nel frattempo, il portale magico sembrava impazzito: sembrava che cambiasse continuamente destinazione. Adesso mostrava un bosco lussurioso, altre volte una città in rovina, altre volte ancora quello che sembrava un magazzino, altre volte la cima di un vulcano… Hazim cercava di tenere il conto dei cambiamenti e di inviare dentro il portale quante più persone possibili mentre difendeva la fuga della sua gente, ma fare tutto ciò mentre cercava di mandare dentro una famiglia alla volta di modo che nessuno, all’uscita, si ritrovasse da solo non era un’impresa facile. Tuttavia, sembrò riuscirci, fino a quando non toccò a lui, a sua moglie ed a suo figlio. Hazim stava di spalle al portale, fronteggiando gli asabi, cercando di proteggere i suoi cari dagli attacchi delle belve, aspettando che sua moglie gli desse il segnale per saltare nell’ignoto tutti insieme, quando un Asabi sfondò il cerchio che i suoi soldati avevano eretto a difesa dei superstiti. Lanciando un urlo belluino, la creatura saettò in avanti lancia in resta, ed Hazim si rese subito conto che la punta della lancia non era diretta a lui, ma alle due persone dietro di lui… Reagendo d’istinto, Hazim spinse all’indietro i suoi cari per evitare che venissero trafitti, ma si rese conto di ciò che aveva fatto solo quando avvertì la presenza della sua famiglia sparire nel portale alle sue spalle. Terrorizzato, Hazim si girò d’istinto per vedere dove fossero finiti, ma sapeva già che l’immagine riflessa sulla superfice del portale, qualunque fosse stata, era già cambiata, dato che aveva dimostrato di cambiare ogni volta che una persona o più persone simultaneamente entravano nel portale. Adirato, Hazim si rivolse allora contro l’Asabi, ma questi, terminata la sua corsa, aveva girato le zampe posteriori ed aveva colpito in pieno stomaco il nomade con un possente colpo di coda. L’impatto fu tremendo. Hazim compì un enorme sforzo nel tenere le armi impugnate e gli occhi aperti, mentre volava, spinto dalla forza d’impatto, verso il portale. L’ultima visione lucida che gli parve di avere fu quello di una città in rovina, al cui centro torreggiava una torre d’ossa…
CARATTERISTICHE PRINCIPALI DEL PERSONAGGIO
E' molto orgoglioso - è autosufficiente, si sa curare da solo e ha una grandissima conoscenza delle erbe mediche - sa sopravvivere negli ambienti più ostili - è ovviamente preoccupato per la sorte dei suoi cari - ha un concetto dell’ospitalità molto alto, secondo il quale l’ospite è sacro; tuttavia sa quando un ospite da sacro diventa sgradito - Ha un senso dell’onore e della lealtà molto alti, e considera il tradimento come un’offesa sanguinosa - Sa lottare molto bene, essendo la lotta un passatempo dei beduini - Adora il tè ed il tabacco - È un ottimo cuoco - È spesso taciturno, e quando parla lo fa dopo aver pensato molto - Combatte con armature leggere o tutt’al più medie, scimitarra e scudo - Porta sempre on sé un pestello ed un mortaio d’argento, che vengono usati dai beduini al duplice scopo di battere il tè con le spezie e di attrarre con il richiamo tutti coloro che sono nelle vicinanze. Questo richiamo è un segnale convenuto dai beduini per ritrovarsi nel deserto nel caso qualcuno si fosse perso, ed il suono del pestello è un segnale non solo che si diffonde a distanza di miglia ma che comunica universalmente una sensazione di pace e tranquillità. Per cui, stavo pensando che magari sarebbe carino se appena arrivato a Myth Drannor cercasse di contattare la sua famiglia attraverso il pestello.
Hazim Oggi
La famiglia di Hazim è tenuta al momento dalla famiglia dei Leyiraghon di Melvaunt. Hazim è stato ucciso dal campione degli orchi di Xul Jarak.